Il tempo è sintesi estrema della nostra esistenza, se lo sprechiamo non facciamo altro che attivare un processo di dispersione e indebolimento della nostra principale riserva vitale. Le parole modellano il tempo spaziandosi nei luoghi emotivi della mente. Talvolta svaniscono, talaltra persistono e ronzano come api quando impollinano. Non sempre però, le parole producono miele. Hanno facoltà di dilatare il tempo o di contrarlo, di renderlo fertile o sterile, di portare luce o incupire.
L’approccio testuale “sbrigativo” da social ha codificato un linguaggio nuovo che contamina inesorabilmente il significato delle parole.
Le regole irregolari, e in continua evoluzione dei social, sono sbarcate nel parlare quotidiano, dandoci l’illusione che l’inglese sia più performante a partire dal mondo del mondo del lavoro. Quali saranno gli scenari futuri della comunicazione, fin dove ci spingeremo nel rinnegare il potenziale espressivo della nostra lingua madre?
Quello che preoccupa non è tanto l’uso di anglicismi, ciò che lascia perplessi è che spesso distorciamo il significato delle parole che importiamo dalla lingua inglese perché non ne conosciamo l’etimologia.
Usiamo parole inglesi senza conoscerne il reale significato
Talvolta i giovani (che non sono puristi dell’italiano) non riescono a dare una traduzione immediata, delle parole straniere, sanno cosa significa ma non sanno esprimerlo nella nostra lingua italiana.
È un comportamento da esterofili senza logica o non esiste un reale corrispondente in italiano?
Il linguaggio tecnico inglese è sicuramente il più ricco e il più accreditato a livello internazionale ma spesso è usato a sproposito. Nel mondo del lavoro le qualifiche professionali sono solo in inglese, CEO, HR Director, Executive, Founder e Partner ma le retribuzioni sono in Euro e sempre più basse rispetto ad altri Paesi.
Sembra più una scelta estetica, di adeguamento a una convenzione, che non una reale necessità di appropriatezza
Un altro fenomeno interessante dell’evoluzione del linguaggio è la creazione – tutta italiana – di neologismi in lingua inglese.
È paradossale che un inglese non dica: smart-working ma remote working, che non chiami box la rimessa per la sua macchina, o flipper la pin ball machine.
Quale sarà il risultato della trasformazione della lingua italiana lo capiremo in futuro. I francesi sono più prudenti di noi, hanno quel senso di identità culturale che noi invece mercifichiamo senza una visione delle conseguenze.
Contando gli errori grammaticali e di sintassi, presenti ogni giorno in rete, a partire dalle principali testate giornalistiche nazionali, sia nelle loro versioni online sia sui loro profili social, il quadro è allarmante. Non si tratta solo di refusi.
In un articolo del 2009 dal titolo: Studiare le date e la grammatica a scuola fa capire l’identità del Paese, Francesco Alberoni sostiene che: “Il disordine del modo di pensare si riflette nella lingua. Nelle scuole non si insegnano più la grammatica, l’analisi logica e la consecutio temporum. Diversi ragazzi non distinguono il passato prossimo da quello remoto, Non capiscono la logica del congiuntivo e del condizionale. Acuni confondono addirittura il presente con il futuro. È il disfacimento mentale, la demenza”.
Nel mio lavoro di editor narrativa ho verificato che, ad esempio, alcuni giovani (fascia di età 19/30) si confondono tra la prima e la terza persona singolare del passato remoto dei verbi in “ire”. “Partii” e “partì” vengono usati in modo errato, invertendoli, perché oltre alla grammatica non si studia nemmeno più l’ortografia.
Commettiamo errori anche quando scriviamo in italinglese, come fossimo concentrati a parlare senza dire, ma soprattutto senza ascoltare. Basterebbe un buon ascolto, un buon orecchio, per sentire che qualcosa stona o stride tra le parole. È pur vero che si sta perdendo – in nome dell’istantaneità – la buona usanza di rileggere quello che si è scritto, ma è anche vero che talvolta c’è l’inconsapevolezza di poter essere in errore.
E la vergogna – ad avercela – sarebbe un buon deterrente.
Canzone del 1983
Testo di Gaio Chiocchio
Musica di Riccardo Cocciante